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Torna alla home page > 1 Causa - 2 Beatificazione > Questione rosminiana > 3. Dal “Dimittantur” al “Post obitum” del 1888 3. Dal “Dimittantur” al “Post obitum” del 1888
3. Da dopo il “Dimittantur” alla condanna delle
“Quaranta proposizioni” con il decreto “Post obitum” della Congregazione
del Sant'Ufficio nel 1888
Dopo il “Dimittantur”
Gli effetti tanto sperati da Pio IX dal decreto della
Congregazione dell’Indice non sortirono affatto. Immediatamente gli avversari
di Rosmini si adoperarono per mezzo dei giornali culturali di allora perché non
si diffondesse la notizia della sentenza di assoluzione e quando ciò divenne
impossibile, incominciarono a far circolare interpretazioni o riduttive, od
accomodate ai propri fini. Neppure la morte di Rosmini, avvenuta il 1 luglio 1855, ad
un anno di distanza dal Dimittantur, valse a stemperare e gli attacchi e
le difese. Dopo un breve periodo di apparente quiete, quando
cominciarono ad essere pubblicate alcune opere postume del Roveretano, lo
scontro si riaccese giungendo via, via a toni sempre più aspri, soprattutto
intorno all’affermazione di un contrasto sostanziale tra Rosmini e San Tommaso. La Santa Sede dovette intervenire più volte per ribadire
il vero senso del Dimittantur, o attraverso il Maestro del Sacro
Palazzo, o attraverso la stessa Sacra Congregazione dell’Indice, ma con scarsi
risultati. «Si assistette così al costituirsi di una sorta di scolastica
rosminiana, che, contrapponendosi alla neoscolastica tomista, rischiava di operare
a scapito dell’ortodossia del pensiero rosminiano» (G. Lorizio, in “Osservatore Romano”, cit.). Oltre alle polemiche portate avanti dai periodici
culturali di entrambe le parti, uscirono studi e libri, chi pro, chi contro.
Dei primi ricorderemo la poderosa e vasta opera di mons. Pietro Maria Ferrè,
vescovo di Casale, intitolata Degli universali secondo la teoria rosminiana
confrontata con la dottrina di S. Tommaso, ed uscita dal 1880 al 1886 in
undici volumi. Tra i secondi ricordiamo la figura del gesuita padre Giuseppe
Maria Cornoldi che pubblicò nel 1881 un’opera dal titolo. Il rosminianismo,
sintesi dell’ontologismo e del panteismo. «I testi del Cornoldi, che nel 1881 aveva dedicato diversi
articoli alla Teosofia rosminiana, esprimono in pieno questo clima di
aspre controversie dottrinali. Uno storico ben documentato come Luciano Malusa,
scrive a riguardo: «L’esame predisposto dal Cornoldi sulla Teosofia comporta
per la prima volta un diretto attacco all’ortodossia di Rosmini. Il gesuita fa
conoscere al pubblico, anche dei non addetti ai lavori, la Teosofia: ne
fa una specie di riassunto, per quel che è possibile, data la complessità della
materia, lamentando proprio questo limite dell'ampiezza e della difficoltà del
linguaggio e delle argomentazioni, e poi presenta una confutazione di essa che
riprende le accuse di ontologismo e formula invece in modo articolato le accuse
di «panteismo ontologico», dirigendole ora esplicitamente verso il pensiero di
Rosmini» (A. Malusa, L’ultima fase della questione rosminiana e il decreto
«Post obitum», Sodalitas, Stresa 1989, p. 34). L’opera del Cornoldi non può
non aver influenzato il lavoro dei censori e in particolare quello di coloro
che hanno provveduto alla stesura delle Quaranta proposizioni …» (G. Lorizio, in
“Osservatore Romano”, cit.). In quegli ultimi decenni del XIX secolo la polemica prese
anche un’ulteriore grave risvolto al di fuori del dibattito teologico e
filosofico. «… dopo l’occupazione di Roma, a rendere ancora più profondo il
solco – se non addirittura l’abisso – tra accusatori e difensori di Rosmini, si
aggiunse il fatto che i “rosminiani” erano generalmente in favore di un’intesa
fra Stato e Chiesa: “conciliatoristi”, come si chiamavano. E gli “antirosminiani”
erano schierati sull’altra sponda, quella degli “intransigenti” […] In
particolare, poi, non poteva non preoccupare le autorità ecclesiastiche il
fatto che i riflessi della polemica entravano anche nei seminari […] Infine,
quel “battagliare” tra esponenti del clero, sia diocesano, sia regolare, non
poteva essere di edificazione ai fedeli […] Un intervento autorevole era ormai
sentito necessario e improrogabile […]» (R.
Bessero–Belti, La questione rosminiana, Stresa, 1988). La condanna delle “Quaranta proposizioni” con il
decreto “Post obitum” della Congregazione del Sant’Ufficio (1888)
La pubblicazione dell’Enciclica Æterni Patris di
Leone XIII (4 ottobre 1879) fu salutata dagli avversari di Rosmini come
un’implicita condanna del suo sistema e si parlò esplicitamente ed apertamente
di un sistema affetto da errori di ontologismo, panteismo, confusione
dell’ordine naturale col soprannaturale, traducianismo o generazionismo. Con un tale clima il prevedere una probabile condanna di
Rosmini appariva quasi inevitabile, e così fu. Il 7 marzo 1888 con una lettera del segretario della
Congregazione del Sant’Ufficio, Card. R. Monaco, veniva comunicato a tutti i
vescovi il Decreto “Post Obitum” con cui
venivano condannate 40 proposizioni tolte dalle opere postume di Antonio
Rosmini. Il Decreto porta la data del 14 dicembre 1887. Due
consultori vennero chiamati ad esprimere il loro giudizio: P. C. Mazzella e Mons.
Fr. Satolli. Il gesuita Mazzella propone due possibilità: «un atto Pontificio,
col quale si condannasse la Teosofia di Rosmini indicandone i precipui
errori come Pio IX aveva fatto nel 1857 con Gùnther». Oppure «un mezzo più
mite, cioè dichiarare una serie di proposizioni della Nota e del suo Voto
con la qualifica: “tolerari non possunt” ovvero “tuto doceri non
possunt”». Mazzella stesso quindi oscilla fra ha qualifica «erroneo» e «non
tuto». Mons. Satolli, pur essendo molto critico si orienta diversamente:
ritiene infatti che Rosmini abbia mantenuto «razionalmente tutti i dogmi», ma
che il suo sistema non possa essere approvato … Ambedue i censori concordano
indirettamente nel ritenere che Rosmini abbia inteso mantenere tutte le verità
cattoliche, senza negarne alcuna e che sia, piuttosto, il suo sistema a
risultare inaccettabile (Cfr. K. J. Becker, Sviluppo e coerenza delle interpretazioni magisteriali
del pensiero rosminiano, in: “Osservatore Romano”, 30 giugno - 1 luglio
2001, p. 5). Che non tutto sia corso liscio, potrebbe arguirsi dalla
formulazione del decreto, in cui, pur dopo tante aperte imputazioni degli
avversari di Rosmini, non si fa cenno alcuno di eresie o di errori, né si
ritiene di introdurre neppure la più tenue delle note teologiche, riguardo alle
Quaranta Proposizioni, ricorrendo invece a una formula piuttosto
generica e forse non molto usitata: haud consonæ videbantur catholicæ
veritati (cfr. Pagani–Rossi, Vita
di Antonio Rosmini, Rovereto, Manfrini, 1959, vol. II, p. 711). Delle 40 proposizioni condannate dal decreto del
Sant’Ufficio, 21 sono tratte dalla Teosofia, lasciata incompiuta da
Rosmini e che rappresenta senza dubbio la sua più alta speculazione filosofica;
9 sono tratte dall’Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata,
una profonda meditazione filosofica, teologica ed ascetica sul prologo di S.
Giovanni, anch’essa lasciata incompiuta dall’autore; le altre 10 proposizioni
sono prese da altre opere di Rosmini già esaminate e “prosciolte” dal decreto “Dimittantur”
del 1854, ma che anche da queste opere si siano tratte proposizioni da
condannare, nel Decreto si spiega col dire che in dette opere le dottrine condannate
si trovavano già «in germe». La loro formulazione risulta composita e complessa: alcune risultano
composte prendendone parte da un contesto e parte da un altro contesto della
stessa opera, altre addirittura prendendone parte da un’opera e parte da
un'altra. Per un loro approfondimento si rimanda ai molteplici studi che in
quest’ultimo secolo sono stati pubblicati.
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